Quei 3.000 e più miliardi di dollari di liquidità nelle casse dei fondi sovrani, molti dei quali concentrati in Medio Oriente e Asia, sono benvenuti se si limitano ad irrigare - passivamente - le aride economie occidentali, tenute a secco da un indomabile credit crunch. Ma se, come ha denunciato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, le imprese italiane rischiano di finire sotto attacco delle Opa ostili dei Sovereign wealth funds (Swf), allora è il momento di alzare qualche diga. Così, mentre il ministro degli Esteri Franco Frattini vola ad Abu Dhabi dove incontrerà Sheikh Abdullah Bin Zayed Al Nahyan membro del Cda del fondo Adia (il più grande al mondo con 1000 miliardi) il Governo prepara un ritocco alla legge sull'Opa per dare qualche munizione in più alle società sotto tiro e intanto chiude un occhio all'ingresso di investitori libici in Unicredit. Non a caso il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica presieduto da Francesco Rutelli) si sta interessando a eventuali rischi connessi a «interventi poco trasparenti» di alcuni fondi.
Sbattere la porta in faccia a questi investitori istituzionali di lungo periodo è però un lusso che nessun Paese occidentale sull'orlo della recessione per la crisi della liquidità e del credito può permettersi, ora come ora. Questi fondi statali restano oggetto di studio perchè unici: non hanno debiti, investono prevalentemente all'estero, si alimentano con i surplus delle bilance commerciali o con i guadagni delle vendite di materie prime (petrolio in primis).
Le pillole avvelenate non devono essere prescritte per legge. Gli Stati Uniti e l'Australia sono due esempi recenti di un freno all'avanzata dei Swf: dopo lo sbarco di Singapore, Kuwait, Emirati Arabi e Cina nel capitale di alcuni colossi bancari di Wall Street, Morgan Stanley e i liquidatori di Lehman Brothers si sono rivolti alle giapponesi Nomura e Mitsubishi Ufj. L'Australia è andata oltre. Quando ha temuto che la Cina mirasse alla gestione strategica di Rio Tinto (uno dei più grandi fornitori di materie prime al mondo), ha eretto paletti: la società statale cinese Chinalco, gigante dell'alluminio, dovrà chiedere il permesso al Governo australiano per poter andare oltre l'attuale quota del 10% in Rio Tinto e non può nominare un membro del consiglio di amministrazione.
L'Italia non svetta in cima alla classifica dei Paesi occidentali nel mirino dei fondi sovrani, dominata da Stati Uniti, Svizzera, Gran Bretagna e India. Ma gli investimenti in Italia stanno crescendo, come l'ultimo acquisto reso noto ieri con l'ingresso di Libyan Investment Authority in Unicredit. Prima si sono fatti vedere nei settori del lusso, della moda e dell'immobiliare: sono entrati in Ferrari, Piaggio, Mediaset, in alberghi come il Gallia a Milano. Il fondo sovrano di Singapore ha messo piede nelle autostrade, negli aeroporti, nelle stazioni e nella telefonia facendo il suo ingresso nel capitale di Sintonia, holding che fa capo alla famiglia Benetton. Di recente la Cassa depositi e prestiti guidata da Alfonso Iozzo assieme alla francese Cdc hanno fondato il "Club degli investitori di lungo termine" per attrarre i fondi sovrani nelle infrastrutture europee, a secco di finanziamenti prima della crisi di liquidità del secolo.
I fondi sovrani hanno iniziato la loro storia nel 1953 nel Kuwait con la Kuwait investment authority: hanno mosso i primi passi come investitori molto conservativi e prudenti, concentrando il proprio portafoglio nei titoli di Stato, principalmente Treasury americani: incassando rendimenti molto bassi (è stato calcolato l'1% in termini reali negli ultimi 60 anni). Solo da qualche anno hanno iniziato a diversificare spostandosi nel mondo dell'equity: con un tempismo non proprio fortunato, a giudicare dalle minusvalenze da capogiro incassate entrando nelle più grandi investment bank americane e svizzere prima del collasso delle Borse.
E poi i Sovereign wealth fund sono entrati a loro volta nel mirino di legislatori e regolatori: la Germania intende arginarli per legge con l'obiettivo di frenare acquisizioni di partecipazioni azionarie rilevanti in società strategiche per il Paese; l'Ocse e il Fmi lavorano a codici di condotta e auspicano più trasparenza nella governance, vero punto oscuro. Ma il rubinetto dei fondi sovrani, pur con qualche precauzione in più, sarà lasciato aperto.
isabella.bufacchi@ilsole24ore.com